È diventato difficile immaginare o ricordare com’era la società anche solo pochi anni fa, prima dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa “orizzontali”, ma c’è stato un tempo in cui era possibile, anzi era facile, non essere costantemente connesso a qualche sistema di comunicazione e di controllo. In cui molte cose rimanevano nascoste o sussurrate perché non c’era modo di renderle pubbliche in modo facile ed era quasi impossibile documentarle. In cui, quando la controinformazione riusciva a far emergere la verità e a smascherare le versioni ufficiali di comodo, si scatenavano delle vere e proprie rivoluzioni, come quella che vi stiamo per raccontare. Una rivoluzione che, al contrario di quello che cantava Gil Scott-Heron nel 1970, fu trasmessa integralmente in televisione.
Noi italiani viviamo spesso di riflesso rispetto alla cultura americana. Ci sembra che, per certi versi, la realtà proiettata dalla TV di oltreoceano sia un po’ più vera di quella che possiamo vedere fuori dalle nostre finestre e che l’aura di Hollywood avvolga anche avvenimenti drammatici di una spettacolarità cinematografica. Rimaniamo spesso affascinati dalle immagini riprese dagli elicotteri degli inseguimenti lungo le strade di Los Angeles. Sono momenti in cui la realtà si mischia con la fiction, in cui capiamo che quello che vediamo nei film è spesso ispirato alla cronaca. Ma sono anche momenti in cui subiamo l’influenza della narrazione che ci viene proposta dai media.
In questa narrazione, solitamente il cattivo è un generico nero tra i 20 e i 40 anni alto circa un metro e 80 con indosso una felpa con cappuccio sollevato. È uno degli elementi più importanti presenti in Bowling for Columbine, documentario di Michael Moore che a partire dalla strage avvenuta in una scuola vicino Denver nel 1999, ricostruisce, tra le altre cose, anche quella “cultura della paura” che domina i notiziari statunitensi e, se sostituiamo “nero” con “extracomunitario” o “clandestino”, anche i nostri.
Il cortocircuito nasce quando compare un elemento che all’improvviso scardina questa narrazione e mostra come, in alcuni casi, il cattivo non sia quello che ci viene raccontato.
Los Angeles, 3 marzo 1991. Un’auto transita sulla Foothill Freeway ad alta velocità. Una pattuglia della polizia si mette all’inseguimento e, insieme ad altre volanti, riesce a fermarla all’angolo tra Foothill Boulevard e Osborne Street. I primi agenti a raggiungere la macchina sono Stacey Koon, Laurence Powell, Timothy Wind, Theodore Briseno e Rolando Solano. I tre occupanti della macchina vengono invitati a scendere e due lo fanno subito. Vengono fatti stendere a terra e colpiti più volte dai poliziotti. Il terzo, un tassista con precedenti per rapina, si rifiuta di scendere e quando lo fa, dà l’impressione di essere ubriaco. Le sue azioni portano gli agenti a estrarre le pistole e a procedere al suo arresto. L’officiale più anziano sulla scena vuole evitare spargimenti di sangue e ordina agli ufficiali di fermarlo senza usare le pistole, ma il tassista resiste. Viene abbattuto da un taser, e, una volta a terra, inizia un vero e proprio pestaggio. Viene colpito almeno 33 volte dai manganelli e dai calci dei poliziotti, poi viene ammanettato e trascinato sul marciapiede. Riporterà diverse fratture al corpo e al volto e avrà anche dei danni permanenti alla vista.
Con ogni probabilità non è la prima volta che succede una cosa del genere sulle strade di Los Angeles e, di sicuro, non è l’ultima. La particolarità di questo incidente sta nel fatto che un residente della zona riprende gli eventi con la sua telecamera e, dopo essere stato ignorato dalla polizia, consegna il video al canale televisivo KTLA. Da lì il filmato fa il giro del mondo. Tutti ricordiamo quelle immagini, quelle del pestaggio e dell’arresto di Rodney King.
Il filmato crea il cortocircuito a cui accennavamo prima e scatena un acceso dibattito sui media, la cui eco arriva anche in Italia. Le immagini del pestaggio e dell’arresto sono effettivamente abbastanza crude e molti all’epoca ritennero che la violenza dei poliziotti fosse esagerata.
L’indagine scaturita dal filmato porta a un processo, in cui alla fine, la giuria, composta da nove bianchi, un meticcio, un latino, e un asiatico, il 29 aprile 1992 assolve tre dei poliziotti imputati e non raggiunge un verdetto definitivo per il quarto.
Quel giorno Los Angeles esplode.
Per i sei giorni successivi, a partire dal quartiere di South Central, la rabbia dei neri, ma non solo, si scatena con una forza esplosiva. Le immagini più famose sono quelle del pestaggio di Reginald Denny (il filmato è molto lungo e potrebbe non essere adatto a persone impressionabili), un camionista bianco, all’angolo tra Florence e Normandy. Le riprese dall’elicottero mostrano il violento assalto che ha quasi ucciso questo camionista in un sinistro parallelo con il pestaggio che ha dato inizio a tutto. Denny viene tirato fuori dal suo camion a forza e colpito più volte anche con un mattone.
È chiaro che la sentenza del processo ai poliziotti è solo la causa scatenante della violenza, le tensioni covavano da tempo nelle comunità nere e messicane di Los Angeles. Gli studi successivi indicheranno la mancanza di lavoro, la recessione di quegli anni, la violenza della polizia come le cause profonde della rivolta.
Oltre che verso i bianchi, la rabbia si rivolge anche verso la comunità coreana della zona. La causa è l’uccisione di una ragazza afroamericana avvenuta pochi mesi dopo il pestaggio di Rodney King da parte di una negoziante coreana che sarà condannata solo a un breve periodo di libertà condizionata. Il livello dello scontro tra le due componenti è così alto che i coreani organizzano una sorta di milizia armata per difendere le loro proprietà dai saccheggi e ci sono immagini che li riprendono sparare ad altezza d’uomo contro gli assalitori.
Secondo un articolo pubblicato recentemente sul Los Angeles Times, quello che all’inizio era un uprising, una sollevazione legata a una causa politica, si trasformò in breve in una vera e propria rivolta in cui la mentalità del branco ebbe la meglio sulle altre spinte.
Solo l’intervento della Guardia Nazionale e dei Marines riuscì a fermare la violenza. Sul terreno rimasero 53 morti, di cui otto uccisi dalle forze dell’ordine, 2.000 feriti, 11.000 arrestati e danni per circa un miliardo di dollari.
Perché Bruce Springsteen come colonna sonora dei riot di Los Angeles? Un rocker bianco e della Costa Est ha apparentemente poco a che fare con scontri scoppiati nella principale città della Costa Ovest che ha visto come principali protagonisti membri delle cosiddette minorities. È un periodo particolare, nella sua carriera. Da qualche anno, Springsteen ha sciolto la sua storica E Street Band e si è trasferito proprio a Los Angeles. Sembrerebbe essersi allontanato dalle sue radici blue collar per abbracciare uno stile di vita da star di Hollywood, a cui però non si adatterà mai completamente, tanto è vero che pochi anni dopo farà i bagagli e tornerà a vivere e a lavorare nel suo New Jersey. La sua permanenza in California si concretizza in due dischi che secondo i critici e fan, sono forse i punti più bassi della sua produzione. In particolare, Human Touch è un disco decisamente poco riuscito, ma la canzone che abbiamo appena ascoltato ha una sua importanza. Poiché Springsteen è un attento osservatore della realtà che lo circonda, non può fare altro che notare che il periodo in cui Los Angeles brucia è lo stesso in cui la televisione inizia ad assumere il ruolo pervasivo e invasivo che conosciamo oggi. Il pubblico rimane spesso per ore come ipnotizzato a seguire le immagini dei bombardamenti di Baghdad o della fuga di O.J. Simpson. Nel video della canzone c’è una versione diversa da quella del disco, in cui sono aggiunti i suoni e le immagini della rivolta.
La scena afroamericana di Los Angeles, invece, usa un linguaggio decisamente diverso. Usa il linguaggio del rap, che di lì a poco diventerà gangsta rap, e che grazie a figure come Tupac Shakur, The Notorious B.I.G. o gli NWA diventerà prima simbolo della rabbia e della voglia di riscatto dei ghetti, poi, negli ultimi anni, prenderà il posto del rock come principale genere mainstream della cultura giovanile americana e mondiale.
Negli anni successivi e anche oggi, gli episodi di violenza a sfondo razziale negli Stati Uniti non sono diminuiti. La situazione oggi, per molti versi, è opposta a quella degli anni ’90. Oggi il sovraccarico di informazioni che riceviamo è tale che la reazione è quasi sempre di assuefazione e assopimento. Alla fine, sembra che la droga della nazione non sia, come cantava Michael Franti, la televisione, ma la rete.
Per fortuna, però, c’è anche chi riesce a sfruttare la rapidità della comunicazione contemporanea e reagire con prontezza alle ingiustizie e ai torti, come testimoniano grandi momenti di partecipazione collettiva come Occupy Wall Street o gli eventi di Ferguson del 2014 e del 2015 dopo l’uccisione di Michael Brown, un altro ragazzo afroamericano vittima della polizia.
Potete scoprire tutti gli altri podcast di I giorni cantati sulla pagina Facebook, sul sito del Circolo Gianni Bosio e su igiornicantati.wordpress.com.
Io sono Daniele Funaro e vi do appuntamento alla prossima volta ricordandovi che Londra affonda e io vivo vicino al fiume.
EXTRA
Nel 2012 il canale televisivo VH1 ha prodotto un documentario intitolato Uprising: Hip Hop and the LA riots in cui racconta la storia di quei giorni attraverso le voci di alcuni dei protagonisti. Ci sono Rodney King, prima della sua morte avvenuta per annegamento in una piscina nel luglio 2012, Reginald Denny, il camionista aggredito all’incrocio tra Florence e Normandy e Henry Watson, uno degli aggressori. E ci sono molti dei protagonisti della scena Hip Hop di Los Angeles di quel periodo. Snoop Dogg funge da voce narrante. Si dice che Tupac Shakur, che in quel periodo era a Los Angeles a girare Poetic Justice abbia partecipato, o almeno assistito da vicino agli eventi. Secondo la trasmissione, l’inno dei riot è questa canzone degli NWA. Questo è il link per poterlo vedere online, ma è necessario un VPN, visto che è bloccato per gli utenti che si collegano dall’Italia.
[precisazione: non l’ho inserita nella trasmissione perché non sono riuscito a trovarne una copia digitale legale e perché, onestamente, mi piace di più la canzone di KRS-One, che è perfettamente adatta al racconto che stavo facendo].
C’è anche un’altro pezzo che è utile per capire il sentimento della comunità afroamericana verso la polizia in quel periodo e viene sempre dallo stesso tipo di ambiente. La differenza è che si tratta di un pezzo molto più rock.