Combat Rock – You’re still alive, she said

Potete ascoltare la puntata sul sito de I Giorni Cantati.

Quando si parla di movimenti culturali, è sempre complicato dare una datazione corretta e univoca sul loro inizio e la loro fine. La cultura è fluida e muta continuamente, perciò è difficile tracciare una linea che divida il prima dal dopo.

Ciò di cui parliamo oggi, però, fa eccezione. In questo caso è possibile identificare una data di inizio e una data di fine e si può anche indicare un luogo che lo identifica in maniera specifica. Le date sono il 19 marzo 1990 e il 5 aprile 1994, il luogo è una città fino a quel momento presente sulla mappa della musica rock solo per aver dato i natali a Jimi Hendrix.

Oggi parliamo del sound di Seattle, l’ultima grande rivoluzione del rock.

Il cosiddetto grunge inizia e finisce con due morti, entrambe legate alla droga. È un fatto importante perché racconta molto dell’atmosfera che si respirava negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80. Sono gli anni della fine della presidenza Reagan, in cui lo stato sociale messo in piedi da Roosevelt negli anni ’30 e rinforzato da Johnson durante gli anni ’60, viene smantellato e in cui si pongono i primi semi della globalizzazione contemporanea, che proprio a Seattle vedrà  la prima apparizione del movimento No Global a cavallo del nuovo secolo. Seattle non è una città ricca o famosa. È la culla di due dei più importanti simboli della globalizzazione in cui viviamo, Microsoft e Starbucks, ma all’epoca vive in una sorta di isolamento che, se da una parte la esclude dalle mode correnti, dall’altra crea l’ambiente ideale per una cultura locale chiusa e compatta, in cui i vari gruppi si stimolavano a vicenda e in cui i membri erano quasi tutti amici tra loro.

La morte che segna l’inizio di questa storia è quella di Andrew Wood, il cantante della band che abbiamo appena ascoltato, i Mother Love Bone. Il suo stile era abbastanza legato a quello delle band metal che dominavano il mercato negli anni ’80, lontano da quello che comunemente associamo al grunge.

Wood divideva l’appartamento con un altro musicista di nome Chris Cornell, il cui gruppo stava iniziando ad avere una certa risonanza a livello locale, i Soundgarden. Cornell scrive una serie di canzoni per ricordare il suo amico e, insieme ai membri rimasti dei Mother Love Bone e al batterista dei Soundgarden Matt Cameron, li incide e li pubblica con il nome di Temple of the Dog. Nella terza traccia del disco omonimo, fa il suo esordio un ragazzo appena arrivato a Seattle da San Diego, dove faceva il benzinaio, Eddie Vedder.

Cosa ci fa un benzinaio di San Diego in un disco di omaggio a un cantante di Seattle? L’overdose che uccide Andy Wood porta i restanti membri del gruppo a decidere di cercare un altro cantante e la storia di questa ricerca è una di quelle storie improbabili e affascinanti che solo il rock può offrire. Jeff Ament e Stone Gossard, chitarra e basso dei Mother Love Bone, decidono di inviare una cassetta con alcune prove registrate insieme al chitarrista Mike McCready a Jack Irons, all’epoca batterista dei Red Hot Chili Peppers, il quale la gira a un suo amico, un benzinaio di San Diego che canta con un gruppo chiamato Bad Radio. Eddie Vedder, appunto.

Vedder registra le tracce vocali per i tre pezzi del demo e le rispedisce a Seattle. Tempo una settimana ed è diventato il cantante di questa nuova formazione, che fino a oggi ha venduto 60 milioni di dischi in tutto il mondo e ha rappresentato uno dei simboli del sound di Seattle, i Pearl Jam. Una delle tre canzoni incise da Vedder unisce elementi autobiografici con parti inventate. È parte di una trilogia che racconta l’incesto, la follia e la prigionia di un ragazzo. È Alive.

 

Il successo commerciale di Ten, primo album dei Pearl Jam, non è travolgente, almeno all’inizio, ma le vendite crescono costantemente e supereranno anche quelle di Nevermind negli Stati Uniti, trainate anche dal fatto che Seattle è diventata nel frattempo il centro del mondo per quel che riguardala musica e la moda. In tutto il mondo i ragazzi, me compreso, iniziano a indossare camicie a scacchi e anfibi e ad ascoltare quella musica nuova ed essenziale, che spazzava via un decennio in cui a farla da padroni, dopo che la New Wave si era esaurita, erano stati pomposi gruppi glam metal o artisti pop di grande apparenza ma di sostanza quantomeno discutibile.

In questo panorama, i Pearl Jam sono il gruppo che ha rappresentato, insieme ai Soundagrden, l’approccio più “classico” al rock. Se i Nirvana erano l’anima punk di Seattle e gli Alice in Chains quella metal, il gruppo di Vedder, Ament e soci era, ed è ancora, quello che si è più pesantemente rifatto agli anni ’70 dei Led Zeppelin, degli Who e di Neil Young, con cui suoneranno in Mirror Ball del 1995. Il sound solido e compatto della band, basato sulla chitarra elettrica, si unisce a testi che raccontano, soprattutto nei primi dischi, il disagio di crescere e vivere nell’America dei primi anni ’90, in un mondo in cui l’individualismo era stato promosso a valore assoluto e in cui il successo era valutato solo per l’apparenza. È anche da questo scenario che emerge una delle loro canzoni più belle. L’ispirazione nasce da un fatto di cronaca: l’8 gennaio 1991 uno studente del liceo di Richardson in Texas si uccide con un colpo di pistola di fronte all’intera classe e alla professoressa di Inglese. Vedder parte da questo tragico episodio per raccontare il disagio dei giovani di quel periodo e anche il video della canzone diretto da Mark Pellington e censurato nella sua versione originale da MTV è perfetto per raccontare questa situazione. Il nome del ragazzo era Jeremy Wade Delle.

I Pearl Jam sono uno dei pochi gruppi della scena di Seattle ancora attivi al giorno d’oggi e sono anche un gruppo che ha mantenuto una precisa e coerente posizione ideologica. Hanno combattuto delle vere e proprie battaglie contro l’establishment del music business, come quella, che li ha visti sostanzialmente sconfitti, contro il colosso della vendita di biglietti Ticketmaster negli anni ’90. Sono stati apertamente schierati contro le politiche dell’amministrazione Bush e hanno attivamente partecipato al tour Vote for Change a favore della candidatura di John Kerry alla presidenza nel 2004.

Inoltre sono note le posizioni a favore della scelta delle donne e della difesa dell’ambiente di tutti i i membri della band. Grazie all’azione di Stone Gossard, la band si impegna ad avere un impatto il più possibile vicino allo zero durante i loro tour.

Proprio per questo non stupisce che Eddie Vedder abbia realizzato uno strepitoso disco solista come colonna sonora di un film che racconta la storia di un ragazzo che, dopo aver donato in beneficienza i suoi soldi, decise di di abbandonare tutto per vivere a diretto contatto con la natura. Chris McCandless morì probabilmente a causa di un avvelenamento nell’agosto 1992 mentre viveva in un autobus abbandonato in Alaska. Il film che racconta la sua vita uscì nel 2007 diretto da Sean Penn. Si intitola Into the Wild.

 

La volontà di McCandless di fuggire da questa società può essere vista come una metafora della voglia di cambiamento di uno stile di vita legato ormai a filo doppio con il capitalismo e la globalizzazione. In questo senso la musica è ancora un mezzo di liberazione e di obera espressione in un mondo che si fa sempre più opprimente.

Nella prossima puntata ci occuperemo di raccontare un altro pezzo della storia della musica di Seattle, che per molti versi si può collegare a questo. Proprio l’incapacità di sopportare i peso della fama e di gestire questa incapacità sarà uno dei motivi che porteranno alla seconda morte si di questa storia, quella che chiuderà la stagione del grunge e, per molti versi, anche quella del rock. Parleremo dei Nirvana e Kurt Cobain.

Potete scoprire tutti gli altri podcast di I giorni cantati sulla pagina Facebook, sul sito del Circolo Gianni Bosio e su igiornicantati.wordpress.com.

Io sono Daniele Funaro e vi do appuntamento alla prossima volta ricordandovi che Londra affonda e io vivo vicino al fiume.

 

EXTRA

Una delle principali fonti per la stesura di questa (e della prossima) puntata è un libro pubblicato da Odoya nel 2012, Grunge is dead di Greg Prato. Il sottotitolo è Storia orale del grunge e, come si può immaginare, raccoglie – quasi senza commenti dell’autore – testimonianze di moltissimi protagonisti della scena musicale e culturale di Seattle di quel periodo. Come tutte le storie orali, la sua affidabilità dal punto di vista della cronaca nuda e cruda non è al 100% affidabile (“My sources are unreliable, but their tales are fascinating”), e ci sono le classiche versioni contrastanti dello stesso episodio, ma il quadro che ne esce è ricchissimo. Si parla di concerti in oscure cantine periferiche a cui erano presenti 50 persone, di feste, di droga, di donne, di registrazioni, di litigi e di morte. La musica di Seattle è raccontata a partire dalla metà del XX secolo e si spinge fino al nuovo millennio, quindi vi sono raccontati l’ascesa e il declino di questa città nel lontano nord ovest degli Stati Uniti. Grande spazio è dato, come prevedibile ai personaggi che non ce l’hanno fatta, come Andy Wood e Kurt Cobain, ma anche come Layne Staley, frontman dei Mad Season e degli Alice in Chains, morto anche lui per overdose come Wood nel 2002, proprio il 5 aprile, come Cobain.

È una lettura consigliatissima per chi, come me ha vissuto e amato quel periodo e quei personaggi e per chi vuole conoscere una storia ricca di personaggi anche minori, ma fondamentali e per capire un po’ meglio quelli che invece sono diventati davvero famosi.

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