È una specie di luogo comune che si trova in tantissimi film o romanzi americani. Ogni generazione ha dei momenti che la definiscono sul piano della cultura e dell’identità. “Dov’eri quando hanno ucciso Kennedy?”, “Dov’eri quando c’è stato l’allunaggio?” Le risposte a domande come queste sottintendono gli elementi in comune tra persone anche molto diverse tra loro.
Per quelli della mia generazione, una di queste domande riguarda un ragazzo biondo e con gli occhi azzurri, che in quel momento era la più grande rockstar del mondo, la cui vita veniva scandagliata in maniera quasi ossessiva da giornalisti e paparazzi. Un ragazzo con un talento straordinario, una sensibilità ancora più straordinaria e senza la forza per sopportare il peso della fama.
“Dov’eri quando è morto Kurt Cobain?”
Dicevamo nella scorsa puntata (che potete ascoltare sul sito de I giorni cantati) che il grunge può essere circoscritto tra due morti, quella di Andy Wood nel 1990 e quella di Kurt Cobain nel 1994. Nei quattro anni circa tra i due eventi, il mondo della musica cambia completamente faccia e, per l’ultima volta, il rock si dimostra essere la musica perfetta per raccontare le storie, le idee e le sensazioni dei giovani di tutto il mondo.
Buona parte del merito di questa rivoluzione va attribuito proprio a questo ragazzo di Aberdeen, che con i quattro accordi che abbiano appena ascoltato ha letteralmente spazzato via il decennio precedente.
Le figure dominanti della prima metà degli anni ’80 erano in un periodo di generale appannamento. L’onda della new wave e del punk si era esaurita. Madonna e Michael Jackson dominavano la scena pop, e si iniziavano a vedere i primi esempi di boy band che avrebbero infestato il decennio successivo. Bruce Springsteen aveva sciolto la E Street Band, aveva divorziato e si stava trasferendo a Los Angeles dove avrebbe prodotto i suoi dischi più deboli, e dove avrebbe imparato un po’ di cose che gli sarebbero servite per il suo capolavoro del 1995, The Ghost of Tom Joad. Gli U2 avevano rischiato di sciogliersi dopo il loro tentativo di insegnare la musica americana agli americani, quando una canzone nata per caso li aveva rimessi improvvisamente sulla buona strada per produrre il loro capolavoro Achtung Baby, che sarebbe stato pubblicato nel novembre 1991, due mesi dopo Nevermind.
La scena rock era dominata da pompose band hair metal come i Guns n’ Roses, che suonavano una musica magniloquente e retorica, potente, ma in fondo distante dalla sensibilità e dalle inquietudini del loro pubblico. In retrospettiva, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 c’era una situazione per molti versi simile a quella del 1977, in cui i Sex Pistols travolsero e stravolsero la scena musicale. La differenza è che questa volta il compito toccò a un ragazzo di 24 anni con un enorme talento musicale, ma non altrettanta forza per sostenere il peso di questa situazione. Un ragazzo che, a quello che si legge, fu preso e lanciato in una specie di tornado senza alcun riguardo per la sua sensibilità. La carriera e la vita di Kurt Cobain cambiarono quasi da un giorno all’altro, passando dal vivere in una macchina, come raccontano le storie su di lui, allo status di più grande rockstar del pianeta.
Nel marzo 1994, mentre si trovava a Roma, Kurt Cobain finì per una notte in coma per un’overdose di champagne e Rohypnol. Sua moglie Courtney Love ha dichiarato che era una reazione a un suo possibile tradimento. È possibile, ma è anche certo che Kurt e Courtney (l’equivalente grunge di Sid e Nancy per i giornali dell’epoca) facessero uso di droghe in abbondanza. Il 4 aprile, dopo essere scappato da un centro di riabilitazione a Los Angeles ed essere tornato a Seattle, Kurt Cobain viene visto vivo per l’ultima volta. Il suo corpo viene trovato da un elettricista la mattina dell’8 aprile 1994. Secondo i medici legali era morto da tre giorni per un colpo di fucile mentre era pieno di eroina e diazepam. Nella lettera lasciata accanto al corpo, Cobain ha citato uno dei migliori autori della generazione precedente alla sua, Neil Young, il quale gli ha dedicato un album.
L’8 aprile 1994 era un venerdì. La notizia in Italia arrivò nella tarda serata, perciò la mia risposta alla domanda posta all’inizio potrebbe essere che ero a casa ad ascoltare Planet Rock su StereoDue o a guardare Moka Choc su Videomusic. In quel periodo ero a pochi mesi dalla fine del quinto liceo scientifico e stavo iniziando a farmi salire l’ansia per gli esami di maturità. Non ero quello che si può definire un fan accanito dei Nirvana. Avevo Nevermind, acquistato in America in un negozio in cui il commesso mi disse come se fosse un segreto che c’era una ghost track dopo 20 minuti di silenzio. Però la notizia, almeno per come me la ricordo, mi colpì come un pugno. Non mi sorprese, ma mi lasciò sotto choc.
Ho cercato di ricostruire i miei ricordi e le mie emozioni dell’epoca. Ricordo che la sensazione generale che si percepiva dalle notizie e dai filmati che arrivavano molto più frammentari di oggi (la diffusione di internet era ancora di là da venire) era quella di assistere a una specie di reality show, ancora prima che il termine venisse coniato, in cui il protagonista si stava più o meno lentamente disfacendo, tanto che quando arrivò la notizia del suo suicidio in pochi furono sorpresi. Tristi o disperati, ma non sorpresi. Per gli appassionati di musica era la conclusione naturale di una triste vicenda che si stava trascinando ormai da almeno un paio di anni. Kurt Cobain e Courtney Love erano diventati l’equivalente rock di Lady Diana, spiati e seguiti dalla stampa in ogni momento. Recentemente ho riascoltato la puntata di Planet Rock del lunedì successivo alla morte di Cobain (disponibile sul sito della https://youtu.be/0fE8l25CG2ERAI e su iTunes) e tutti gli intervistati concordavano sul fatto che non era una morte inaspettata. Era chiaro fin dal ricovero di Roma di un mese prima che ci sarebbe voluto qualcosa di davvero speciale per salvargli la vita.
Accanto a questo, però, c’è un altro sentimento che prevale, soprattutto tra i fan che intervennero: la sensazione forte che la morte di Kurt Cobain fosse un evento che riguardava tutti e che l’unica risposta possibile fosse di stringersi per farsi forza e affrontare insieme la tristezza. È stata una grande dimostrazione che la musica, e, in particolare, il rock possono essere una grande forza unificatrice, una delle poche in cui si ragiona ancora in termini di collettività. L’impressione, a 20 anni di distanza, è che quello sia stato l’ultimo momento in cui c’è stata una reazione simile per un musicista. Non so se sia stato il cambio di modello di consumo della musica, la sua smaterializzazione e il fatto che, per esempio, non si vada più a comprare i dischi nei negozi, o se, semplicemente, non c’è più stato un personaggio o un genere capace di parlare un linguaggio universale, ma da quel momento in poi il rock sembra essere diventato un genere musicale come gli altri, piuttosto che uno stile di vita, per dirla in maniera un po’ esagerata.
Però, nonostante tutto, ci rimangono ancora canzoni che fanno correre un brivido lungo la schiena, come All Apologies.
22 febbraio 1995. Kurt Cobain è morto da poco meno di un anno e io sono al Palaeur di Roma per assistere alla prima di due date dei R.E.M. Dopo il set di apertura dei Grant Lee Buffalo, Michael Stipe e soci attaccano a razzo proprio con What’s the frequency, Kenneth? Il pubblico sotto il palco, dove mi trovavo si agita e, a un certo punto, mi sento svenire. Non c’è modo di spostarsi, perciò mi faccio sollevare per passare oltre le transenne e poi trovare un posto migliore. Dopo essermi sentito nel video di Drive, mi sistemo un po’ più indietro e mi godo uno dei concerti più belli della mia vita, nonostante la pessima acustica e due blackout che interrompono proprio What’s the frequency, Kenneth? e Man on the moon. Il momento più emozionante di quel concerto, e il motivo per cui ne parlo qui, arriva all’inizio dei bis.
Michael Stipe sale sul palco e canta a cappella il ritornello della splendida Winter di Tori Amos. Subito dopo, il riflettore illumina Mike Mills che attacca l’accordo iniziale della canzone che il gruppo di Athens aveva dedicato proprio a Kurt Cobain. È un mi minore lancinante, con la chitarra distorta e mandata in overdrive. Il brivido di quel momento è una cosa che ricordo ancora oggi. L’intero palazzetto è in trance per quella performance e canta ogni singola parola. Non so quanti si siano resi conto che la chitarra con cui Mills ha suonato Let me in è la Fender Jag-Stang che Kurt Cobain aveva disegnato e che suonava l’anno precedente durante l’ultimo tour europeo dei Nirvana.
La verità è che l’eredità musicale di Kurt Cobain è enorme, nonostante la sua carriera sia durata più o meno cinque anni. A ormai 25 anni di distanza dall’uscita di Nevermind possiamo dire che quello fu davvero l’ultimo vero grande sussulto del rock come genere musicale e, soprattutto, come movimento culturale in grado di recepire, filtrare e amplificare le tensioni, i desideri e le inquietudini dei giovani di quel periodo. Nella musica dei Nirvana c’era tutto quello che doveva esserci. Era (e, almeno per me, è ancora) il linguaggio più diretto per urlare la propria diversità e allo stesso tempo, la propria voglia di sentirsi parte di qualcosa che coinvolge anche altri. Negli anni successivi alla morte di Kurt Cobain, questo ruolo è stato occupato principalmente dell’hip hop e oggi il rock è ancora ala ricerca di qualcuno che abbia lo stesso impatto. Nel dicembre 2011 Tito Faraci e Walter Venturi pubblicavano su un supplemento del il manifesto una storia a fumetti, purtroppo non reperibile online, in cui ipotizzavano che Cobain non si fosse suicidato e raccontavano una carriera solista e sperimentale per il cantante. Non so se davvero sarebbe potuta andare così, ma è certo che la sua morte ci ha privato di un grande songwriter, che probabilmente avrebbe potuto raggiungere picchi ancora più alti, anche se forse non dello stesso successo di pubblico.
Questa influenza è evidente anche per gli omaggi che Cobain ha ricevuto, sia mentre era in vita, sia dopo la morte, che hanno costituito la base di questa puntata. Molti cantanti e autori si sono misurati con la sua figura e con le sue canzoni, anche alcuni provenienti da situazioni e contesti lontanissimi da Seattle e dal grunge. Basti pensare al fatto che Tori Amos una volta ha dichiarato che la sua versione per voce e pianoforte di Smells like teen spirit le è servita per sciogliere i pubblici più difficili.
Potete ascoltare la puntata sul sito de I Giorni Cantati. Potete anche scoprire tutti gli altri podcast di I giorni cantati sulla pagina Facebook, sul sito del Circolo Gianni Bosio e su igiornicantati.wordpress.com.
Io sono Daniele Funaro e vi do appuntamento alla prossima volta ricordandovi che Londra affonda e io vivo vicino al fiume.
EXTRA
Nel 2011, in occasione del ventennale dell’uscita di Nevermind, Bastonate decise di pubblicare una raccolta di pezzi a tema sul primo e l’ultimo ascolto di questo disco fondamentale per la storia della musica, che, per la cronaca, è al diciassettesimo posto nella classifica dei migliori 500 album di ogni tempo di Rolling Stone, davanti a pietre miliari come Born to Run e Thriller. Tra i tanti pezzi più o meno belli, interessanti e ben scritti, c’è anche il mio modesto contributo, che allego qui sotto. Potete scaricare gratuitamente tutto il libro da qui.
Non sapevo chi fossero i Nirvana, la prima volta che sentii Smells Like Teen Spirit. Credo che fossi nel basement della casa di ma zia a Wilmington, Delaware e che stessi guardando VH1 o MTV, nel 1991 o nel 1992. Non fu quella totale rivoluzione che si dice, almeno per me, che all’epoca ascoltavo U2 (tra l’altro, sono 20 anni anche di Achtung Baby, così), Pink Floyd e cose del genere. Ma certo è che Nevermind mi rimase sottopelle. Avevo 16 anni e quello era uno dei dischi perfetti, se hai 16 anni. I Nirvana entrarono nei miei ascolti abituali in quel periodo. Il commesso del negozio in cui lo comprai, probabilmente un Tower Records a Wilmington, mi disse che la mia era la versione con la ghost track dopo 20 minuti di silenzio, e da quel momento ho imparato a non fermare un disco dopo l’ultima canzone. Lo ascoltavo spesso, e ancora mi ricordo lo choc quando Kurt Cobain si sparò. È uno di quei momenti fondamentali, come l’assassino di Kennedy per la generazione prima della mia o l’11 settembre 2001 per tutti quelli che c’erano. A posterioril’ho capito, che Kurt era un genio.
Devo aver sentito Nevermind l’ultima volta un paio di mesi fa dall’iPhone. E penso tuttora a quanto abbiamo perso, quando Kurt decise di farla finita. È stato davvero un enorme, fottuto spreco.
Come avete notato, questa puntata è stata basata soprattutto su cover o omaggi, ma mi sembra giusto inserire anche la versione dei Nirvana di All Apologies, presa dall’Unplugged che Kurt Cobain e soci registrarono per MTV. Io ho un brivido lungo la schiena ogni volta che la ascolto.